Rockies 05


Anche i piani perfetti hanno una spiacevole tendenza ad andare in vacca, quando si viene al dunque: figuriamoci il nostro che perfetto non lo era per nulla. Volo su Parigi, tre quarti d'ora soltanto di coincidenza per Atlanta, e là due ore prima della tratta interna verso Salt Lake City. All'aeroporto di Genova riescono ad emettere la mia carta d'imbarco per il volo transatlantico, ma non quella di mia moglie Monica. Strano, dice l'addetta. A Parigi, dopo una corsa a perdifiato attraverso mezzo aeroporto, scopriamo che di strano non c'è proprio nulla: è volgarissimo overbooking. Se la mia carta è stata emessa, è solo perché il mio nome risulta memorizzato come frequent flyer, e dunque ho la precedenza. In mancanza di idee migliori, mi lancio nel mio improbabile francese in una dotta dissertazione giuridica sull'inscindibile natura coniugale del diritto alla priorità in lista d'attesa, ma a trarre d'impaccio il malcapitato addetto Air France ci pensano alcuni passeggeri in arrivo da Barcellona e che ancora non si vedono, benché il loro volo sia atterrato da tempo. Probabilmente si sono smarriti nei meandri dell'infernale Charles de Gaulle: comunque sia, il 777 per Atlanta non può attenderli oltre, e si liberano così 17 posti, più che sufficienti a soddisfare l'intero drappello dei desperados dell'overbooking.
distributore automatico di iPod, Atlanta.
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Il volo scorre tranquillo, siamo in ritardo (abbiamo dovuto sbarcare le valigie dei passeggeri provenienti da Barcellona) ma possiamo farcela. Arrivati sulla East Coast USA troviamo tempaccio; veniamo dirottati verso ovest sin verso Detroit, e solo da lì possiamo riprendere la rotta verso sud. La coda all'Immigration americana dà il colpo finale: la coincidenza è andata, ed era l'ultimo volo utile di quel sabato sera; dobbiamo dire addio al celebre coro mormone di Salt Lake che volevamo ascoltare la domenica mattina e passiamo la notte ad Atlanta. Quando avviso l'albergo di Salt Lake che non riusciremo ad arrivare in serata, con tono gelido mi avvisano che addebiteranno egualmente la camera; mi basta però dire che tutto deriva da una mancata coincidenza Delta e subito decidono di abbuonarcela: la cosa non stupisce più di tanto, visto che quella compagnia è la più importante a Salt Lake e sponsorizza anche il palazzetto ove giocano gli Utah Jazz della NBA, che si chiama per l'appunto Delta Center.

Non tutto il male viene per nuocere, comunque: l'indomani possiamo goderci il grandioso spettacolo dell'aeroporto di Atlanta in piena attività. E' il più importante al mondo per numero di passeggeri, circa 77 milioni ogni anno, il che vuol dire che in media passano di là 210.000 persone al giorno. Più che un aeroporto, sembra il fondale di una migrazione biblica. O forse un quadro di Bosch. Dobbiamo fendere fisicamente una folla immensa, all'aspetto più simile a quella di una stazione ferroviaria che a quella di un aeroporto europeo, per raggiungere l'area dei moli d'imbarco. Ove, tra le infinite altre cose, vedo per la prima volta in vita mia un distributore automatico di iPod.
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L' italiana in Salt Lake (*) (*) Con le mie scuse a Rossini
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Le montagne che circondano Salt Lake City formano uno scenario invidiabile. La quota e la natura semidesertica dei dintorni regalano aria tersa e luce tagliente. La città è circondata da famose stazioni sciistiche come Park City, che vantano the best snow in the world, ed è stata sede delle Olimpiadi Invernali del 2002. Curiosa coincidenza: visiteremo anche Vancouver, sede dei Giochi 2010, mentre l'appuntamento del 2006 è a casa nostra, a Torino. Ancora una volta (forse l'ultima, chissà) ho deciso di affidarmi alle diapositive tradizionali per le foto di questo viaggio. Posso scattare con larghezza senza troppi patemi: negli USA, fortunatamente, la pellicola costa molto meno che da noi, ed online ci sono offerte ancora più convenienti; il prezzo della mia pellicola preferita, la Fuji Velvia 100, è esattamente la metà rispetto ai migliori correnti in Italia. Una settimana prima della partenza avevo ordinato via Internet tutto quel che mi occorreva, ed il pacchetto Federal Express era ad attendermi nell'albergo di Salt Lake.

Occupiamo il pomeriggio visitando il quartier generale della Chiesa Mormone, che occupa un complesso di edifici nel centro di Salt Lake. L'accoglienza è estremamente ben organizzata. Appresa la nostra provenienza, ci annunciano che ci farà da guida una ragazza italiana di recente convertita alla fede mormone. Vorrei essere chiaro: non ho assolutamente nulla contro i mormoni, che mi sembrano ottime e pacifiche persone. Su un punto, però, sospetto ci abbiano preso in giro. La ragazza avrà venticinque anni, parla un ottimo italiano ed ha anche un'edificante storia da raccontare: di genitori italiani, ha vissuto spensieratamente a Pesaro sino al provvidenziale incontro con un ragazzo mormone di sani principi, e da un annetto vive a Salt Lake. Però l'accento è davvero sospetto; improbabile che un solo anno negli USA faccia tanto danno. Durante la Controffensiva delle Ardenne, i tedeschi infiltrarono nelle linee alleate sabotatori in divisa USA che parlavano un buon inglese. I tedeschi cascavano però come pere cotte su domande del tipo chi è la ragazza di Topolino? e qual è la capitale dell'Illinois? (risulta autentico l'episodio capitato ad un generale americano, che dopo aver risposto esattamente Minnie e Springfield venne arrestato da un soldato convintissimo che la capitale dell'Illinois fosse Chicago. Sembrerebbe invece un'invenzione la battuta attribuita al britannico Montgomery ai danni dell'americano Eisenhower: se parlano inglese sarà facilissimo individuarli in mezzo ai tuoi ragazzi). Copio di sana pianta la tattica e butto lì il nome di Valentino Rossi: non ha la più pallida idea di chi sia. Una ragazza di poco più di vent'anni, che sino ad un anno o due prima se la spassava proprio a Pesaro? Suvvia. Faceva finta di non conoscerlo per rinnegare un passato godurioso? OK, concedo il beneficio del dubbio. Però l'accento ...

Il complesso mormone comprende un auditorium impressionante, con 21.000 (dicesi ventunomila) posti a sedere. Curiosa la scelta di installare poltrone di dimensioni differenti: non siamo tutti uguali, spiega tranquilla la guida. Ha ragione, specie in America, l'unico Paese al mondo dove io possa sentirmi praticamente magro.
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On the road
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L'indomani ritiriamo la nostra auto a noleggio da Alamo. E' la terza volta che mi servo presso di loro negli USA, trovando sempre un'organizzazione eccellente. Anche stavolta non avremo nulla da eccepire sul servizio: moltissimo, invece, avrò da ridire sulla vettura, una Jeep Grand Cherokee bianca, che invece a Monica è piaciuta. Personalmente l'ho trovata proprio fastidiosa da guidare su asfalto: il cambio automatico reagisce con la prontezza di un ufficio del catasto e lo sterzo dà l'impressione di trovarsi ai comandi di un budino. Una Panda 4x4 è decisamente più gratificante alla guida. Jeremy Clarkson, sul Times dell'11 settembre 2005, ha definito la Cherokee una delle peggiori vetture in circolazione (sembra fabbricata con Lego fuso, secondo lui), salvando solo l'ottimo diesel Mercedes. E naturalmente noi non avevamo neppure quello: al suo posto un 6V a benzina nato stanco, nonostante i 3700 cc di cilindrata. La Jeep dimostrerà se non altro un'eccellente trazione quando, proprio uno dei primi giorni, incontreremo una salita sassosa e ripidina lungo un percorso per fuoristrada nel parco del Grand Teton. Per dirla tutta, nonostante avessi abbordato la salita con la marcia più bassa, il contagiri quasi in zona rossa e l'acceleratore premuto a fondo, verso la cima l'indifendibile sei cilindri era sul punto di spegnersi, ma non me ne sono fatto un cruccio: sul piano motoristico avevo già riposto ogni aspettativa. Per consolarmi, annoto che la Cherokee sembra almeno una scelta decisamente filologica per un viaggio che deve attraversare lo Utah, il Wyoming, il Montana, l'Alberta e la British Columbia, ed anche un paio di riserve indiane.

Resta comunque la sensazione che il mestiere dei rivenditori americani di BMW, Toyota, Hyundai e compagnia bella non sia poi difficile quanto sembra. I produttori USA, all'epoca del nostro viaggio, sembravano in affanno: General Motors offriva al pubblico l'intera gamma con il medesimo sconto riservato ai dipendenti (Employee Discount for Everyone) camuffando l'atmosfera da ultima spiaggia con messaggi vagamente patriottici (del tipo: GM appartiene a tutti gli americani, e tutti hanno dunque diritto allo stesso sconto dei dipendenti). Ancor più preoccupante (almeno per chi, come me, teme l'America indebolita e spaventata che ha creato la prigione di Guantanamo, non quella forte e sicura di sé che ha combattuto due guerre mondiali per la libertà) un certo senso di rassegnazione che traspare qua e là. Un esempio: su un giornale abbiamo visto una vignetta in cui il presidente della NASA annuncia ai suoi ingegneri di aver trovato la soluzione ai problemi tecnici dello Space Shuttle. Quale? gli chiedono. Semplice, licenzio voi ed assumo loro, laddove loro erano un gruppo di orientali in tuta Honda sullo sfondo. Niente di drammatico, per carità, è solo una vignetta, ma credo che dieci anni fa non sarebbe stata disegnata.

Lasciamo Salt Lake verso nord percorrendo le nostre prime miglia di America su una di quelle memorabili Interstate ad otto o dieci corsie, ove tutti i veicoli, autotreni compresi, si muovono all'incirca alla medesima (ridotta) velocità. In simili condizioni, lo strumento relazionale chiave non può ovviamente essere il sorpasso, apoteosi del machismo latino: ben al contrario, i vicini di corsia sembrano dar vita ad un'occasionale comunità, sul genere di quelle che si sviluppano nei compartimenti ferroviari, ancorché per forza di cose silente. Si ha tutto il tempo di osservarsi, di ammirare in dettaglio i rispettivi veicoli, di scrutare i bagagli, di immaginare ove l'altro sta andando e perché.

Non lontano dal punto ove nel 1869 si saldarono i due rami della ferrovia transcontinentale, abbandoniamo l'Interstate per un percorso secondario, che attraverso quel che resta dello Utah ed un pezzetto quasi simbolico (ma bellissimo) di Idaho, ci porterà verso i grandi parchi del Wyoming, Grand Teton e Yellowstone. Viaggiare in automobile negli USA è lento, ma comodo e facile. Le strade sono sempre buone, un posto dove fermarsi a mangiar qualcosa si trova facilmente, e se i piatti proposti preoccupano si può sempre avere un ottimo hamburger (magari di bufalo!) senza salse strane, che risolve il pranzo. Come nei film, si incontrano paesetti che si chiamano Montpelier (così, con una “l” sola) e Paris: nel nostro caso era Paris/Idaho, non la Paris/Texas resa celebre da Wim Wenders. Per la notte i motel non mancano mai, anche se noi siamo partiti dall'Italia con molte soste già riservate sul sito Best Western o su quello di Expedia. Le prenotazioni risulteranno tutte correttamente eseguite, e constateremo anzi come le tariffe trovate in Rete siano sempre nettamente più vantaggiose di qualunque offerta disponibile sul posto. Solo per le sistemazioni all'interno dei parchi nazionali dovremo passar attraverso un call center, e non a caso l'unico contrattempo (risolto peraltro all'istante) verrà da lì. Senza farne una questione capitale, ove possibile abbiamo preferito motel dotati di impianto Wi-Fi (sono ormai moltissimi) per telefonare in Italia via Skype a costi irrisori: circa euro 1,20 all'ora IVA compresa. Attenzione alle chiamate ai cellulari: costano 14 volte tanto. Fuori dai principali centri urbani i nostri GSM, da parte loro, non agganciano la linea neppure per sbaglio.
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Wyoming!
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La prima tappa è Alpine, una località accuratamente scelta sulla carta National Geographic per la sua posizione favorevole, ai confini tra Utah e Wyoming. Se è riportato persino sulla mappa da muro degli USA, avevamo ragionato, sarà un centro di una qualche importanza. Scopriamo che conta dieci case in tutto, ma non è un problema: una è il motel che avevamo prenotato, ed un'altra è occupata da una sorta di saloon frequentato da allevatori dei dintorni. Il piazzale è pieno di pick-up infangati, anziché di cavalli, ma la carne è strepitosa (e vorrei vedere: da queste parti ci sono i migliori bovini d'America), l'amber ale (la mia birra preferita) ottima e l'atmosfera passabilmente autentica: saremo gli unici turisti per quasi tutta la cena. Solo quando per noi sarà il momento di andarsene, dalla notte stellata del West sbucherà un gruppetto di romani. Poco male: non aveva fatto Alberto Sordi, in fondo, anche il doppiatore di film western come Il tesoro della Sierra Madre e Fiume Rosso?

Il primo parco nazionale, il Grand Teton, è a poca strada. Le passeggiate ci regalano un paio di incontri ravvicinatissimi con alci, ma lo ricorderemo soprattutto per un lungo percorso sterrato riservato alle 4x4 che offre più di un'emozione: i paesaggi sono proprio quelli del miglior John Ford, e quelli che si stagliano all'orizzonte, ebbene sì, sono proprio bisonti. Li incontreremo assai più numerosi a Yellowstone, ma al Grand Teton, almeno per qualche attimo, saremo solo noi con la nostra Jeep, i bisonti, e una splendida prateria intorno a perdita d'occhio.

Poche decine di miglia più a nord si entra per l'appunto nel parco di Yellowstone. Abbiamo riservato quattro pernottamenti, e non ce ne pentiremo. All'interno del Parco non ci sono molti posti letto, e sono tutti gestiti da un'unica concessionaria; improbabile riuscire a trovar posto se non si è prenotato per tempo. Un mio amico afferma anzi che anche prenotare per tempo non è impresa facile, e d'aver provato più volte senza successo; non se sia stata sfortuna sua o fortuna nostra, ma nel nostro caso mi è bastata una sola chiamata al call center. Male che vada, sono però numerosi gli alberghi appena fuori dai confini del parco, soprattutto al varco settentrionale.

Tutto si potrà dire del concessionario delle strutture alberghiere di Yellowstone, la società Xanterra, ma non che trascuri di fare il possibile per contenere i costi del personale. Al primo check-in abbiamo trovato un gruppo di anziani che avevano tutta l'aria d'aver sbagliato fondo pensione. Sinceramente mi facevano un po' tristezza, curvi e bianchi dietro un bancone alle dieci di sera, intenti a distribuire chiavi d'albergo con indosso una felpa squillante ed un badge del tipo John from North Carolina. Coraggio, Mr. Smith. Il servizio nelle camere e nei ristoranti è invece affidato a ragazzi che vengono da ogni parte del mondo, con una certa prevalenza dell'Est Europeo; a quanto abbiamo capito, svolgono le varie mansioni a rotazione. A vent'anni è un'esperienza estiva che vale senz'altro la pena di fare, anche se all'Old Faithful Inn si è presentata come portabagagli una ragazza che ad occhio sarà stata di pochi etti più pesante di una delle nostre valigie. Pretendeva a tutti i costi di portare a termine la missione, e di trasportare lei i bagagli su per le scale: temo sia stato poco politically correct, ma mi sono fisicamente opposto.
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Sulle tracce di Yoghi e Bubu
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Yellowstone è assolutamente all'altezza della sua fama, ma non sono gli aspetti paesaggistici a decretarne la grandezza, almeno oggi. Il Parco reca ancora impressionanti le tracce del mostruoso incendio che ne devastò gran parte nel 1988; sono relativamente pochi gli angoli di foresta intatti. Le manifestazioni di origine vulcanica, come il celeberrimo geyser Old Faithful (ma gli preferisco lo spettacolare laghetto detto Grand Prismatic), sono affascinanti ma in definitiva non così memorabili per il viaggiatore europeo: l'Islanda e la Sicilia offrono almeno altrettanto. La ricchezza di Yellowstone risiede soprattutto nelle risorse faunistiche. Abbiamo avvistato, senza difficoltà, enormi cervi ed ungulati di varie altre specie, sempre in gran quantità; orsi bruni e grizzly, svariati rapaci tra cui l'aquila dalla testa bianca simbolo degli USA, coyote e mandrie di bisonti, una delle quali ha guadato in massa un fiume proprio sotto i nostri occhi [nella foto]. Individuare gli animali è per di più particolarmente facile, grazie ad un curioso aspetto della vita del parco, il cosiddetto bear jam, l'ingorgo dell'orso (in verità non ho ben capito se l'espressione giochi sul doppio senso di jam, che vuol dire sia ingorgo che confettura). Un gruppo di veicoli ai bordi della strada, o di escursionisti fermi con gli occhi incollati al binocolo, è segno inequivocabile della presenza di qualche animale interessante. Sulle strade di un parco visitatissimo come Yellowstone, la situazione degenera rapidamente in un intasamento degno della tangenziale di Milano, ed i Rangers (in perfetta divisa stile Yoghi e Bubu) debbono piombare sul posto, sia per ripristinare il traffico che per garantire la sicurezza.

In effetti, il grizzly è una bestia impressionante, e un incontro troppo ravvicinato è un'eventualità più che preoccupante. Molti escursionisti usano portare con sé un campanellino, attaccato alla cintura in modo da suonare in continuazione: secondo una teoria, l'orso tende a reagire violentemente solo quando si trova dinanzi ad un'intrusione inattesa. In caso di attacco di grizzly, alcuni raccomandano di agitarsi, saltare con le braccia in alto, fare rumore: se l'orso ritiene di non trovarsi dinanzi ad una preda facile, è probabile (dicono) che cambi idea. Sono in vendita anche appositi spray al peperoncino; sulla confezione in grande evidenza la raccomandazione di tenere lo spray a portata di mano e non nello zaino: dinanzi ad un grizzly che attacca correndo anche a quaranta chilometri l'ora, spiegano le istruzioni, non c'è tempo di frugare nel sacco. Ma non mi dire. Gli americani sono fatti così: sulle motoseghe sono anche capaci di scrivere Non toccare la catena in movimento. Si racconta che il presidente della Husqvarna, ditta svedese che produce appunto rinomatissime motoseghe (le moto fuoristrada con quel marchio sono ormai da anni prodotte da un gruppo italiano) avesse proposto di sostituire le innumerevoli raccomandazioni di questo genere contenute nel manuale destinato alla clientela USA, con una sola, esaustiva riassuntiva e definitiva: questo prodotto non è inteso per l'uso da parte di imbecilli. In effetti ...

Un'associazione del Michigan, M-LAW, premia ogni anno l'istruzione più idiota; nel 2006 ha vinto una pistola per sverniciare (quelle che lanciano fiammate a 500 gradi abbondanti) il cui manuale ammonisce: non usare come asciugacapelli. Anche il primo classificato 2005 non scherzava: una scopetta da WC la cui confezione ne proibiva l'uso come spazzolino da denti. Gli organizzatori del premio non sono però una comitiva di buontemponi. Il loro bersaglio sono le demenziali richieste di risarcimento danni che troppo spesso vengono accolte dalle Corti americane, e che inducono i produttori a difendersi disperatamente, introducendo nei manuali ogni sorta di precisazione ai limiti (e talora ben oltre i limiti) del comico. Le istruzioni esilaranti sono insomma solo la spia di una realtà ben più seria: il costo di questi risarcimenti (o delle assicurazioni stipulate in previsione) rappresenta una tassa indebita che cade sul consumatore americano, specie nel settore delle cure mediche.


il presidente Ford in divisa da  Ranger.
Al centro del parco di Yellowstone, proprio a fianco del leggendario geyser Old Faithful, si trova un albergo interamente in legno, il già citato Old Faithful Inn, che ha ormai passato il secolo di vita ma che ai suoi tempi era una struttura di gran lusso. I parchi di quest'area degli Stati Uniti divennero mete turistiche di alto livello già a cavallo tra Ottocento e Novecento, col completamento delle linee ferrate transcontinentali; in alcuni casi gli alberghi appartenevano direttamente alle compagnie ferroviarie. Oggi l'Old Faithful Inn resta una meta di fascino, e vale senz'altro la pena soggiornarvi, anche perché la differenza di prezzo rispetto alle anonime sistemazioni moderne dei dintorni è modestissima. Ha anche un discreto ristorante. Se non si ha in programma di dormirvi (o non si è riusciti a conquistare una camera), vale la pena almeno di entrare per gettare un'occhiata alla hall, che l'architetto Robert Reamer ha disegnato in un fantasioso viluppo di rami di gusto quasi fanciullesco; le balconate che affacciano sulla lobby sembrano la versione per adulti della casette costruite sugli alberi per i giochi dei bimbi. Nella hall campeggia questo ritratto di Gerald Ford (ricordate? Fu presidente tra Nixon e Carter) in divisa da ranger, e non è una messa in scena: nell'estate del 1936 Ford fu davvero ranger a Yellowstone. Una targa lo presenta come l'unico ranger ad aver finora raggiunto la Presidenza degli Stati Uniti. Se la frase fa in fondo un po' sorridere (statisticamente parlando, è già molto che ve ne sia stato uno, no?) non dimentichiamo che l'idea secondo cui chiunque può aspirare alla Presidenza è una delle più classiche espressioni di quello che si usa definire il sogno americano.

A Yellowstone, da parte mia, ho invece rimediato una figuraccia di epiche proporzioni. Un pomeriggio ci stavamo concedendo una piccola sosta su un prato, quando con la coda degli occhi vedo qualcosa che si muove e sparisce tra gli alberi. Salto in piedi, afferro la macchina fotografica e seguo di gran carriera l'animale, subito imitato da un altro turista pure provvisto di fotocamera, al cui sguardo interrogativo rispondo con sicurezza degna di miglior causa: a wolf, un lupo. L'abbiamo intercettato e si è anche messo in posa con buona grazia; l'unico inconveniente (per me) è che non si trattava di un lupo ma solo di un povero coyote, ed anche un po' spelacchiato (per chi non fosse pratico delle due bestie: tra il lupo americano ed il coyote passa più o meno la stessa differenza che c'è tra una lince ed un gatto di casa).
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Big Sky
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Dedichiamo con tutta calma un paio di giorni ad attraversare il Montana in direzione nord verso la nostra prossima meta, l'International Glacier Park, ai confini tra USA e Canada. I due giorni on the road si sono rivelati piacevolissimi. Uno dei nomignoli del Montana è Big Sky, il Grande Cielo, e non si tarda a capire il perché: ci si muove entro spazi enormi, quasi mai delimitati, riempiti da una luce affascinante. E' lo stato più ventoso degli USA, e sono già abbastanza numerose le spettacolari installazioni che ricavano elettricità dall'energia eolica. Lungo la strada abbiamo anche occasione di vistare Virginia City (da non confondersi con l'omonima in Nevada), uno dei rari villaggi superstiti dell'antico West. Molti ne sono stati ricostruiti per i turisti; questo è incompleto, un po' malridotto, non ci sono comparse in tenuta da cowboy, ma almeno quel che c'è è originale, con minimi restauri; qualche negozio è stato persino rifornito di merce dell'epoca. E' curioso passare in rassegna i barattoli della drogheria: tra le etichette di produzioni ormai scomparse, o forse soltanto ignote in Europa, fa capolino qualche marchio che ha fatto fortuna e dall'Ottocento è approdato sino ai nostri giorni, come l'immarcescibile Campbell Soup, che non per nulla già Andy Warhol considerava un'icona americana alla stessa stregua di Marylin Monroe.

La simpatica Missoula, Montana, offre una tappa sorprendentemente piacevole. Benché sia una cittadina di poche decine di migliaia di abitanti, è un centro di rilievo anche culturale, provvisto di una delle più importanti università del Montana. The Missoulian spara in prima pagina una controversia legale: si può pescare liberamente nelle acque che attraversano proprietà private? Non è argomento da prendere sottogamba, ammonisce l'articolista. La maggior parte di quanti si trasferiscono nello stato portando con sé nuove attività, sono attirati dalle sterminate possibilità che il territorio offre in termini di caccia e pesca: limitarne la pratica significa insomma attentare allo sviluppo dell'economia del Montana. Il motel è vecchio stile ma comodissimo, l'accoglienza travolgente (sembrava di stare in una puntata di Happy Days) e ci consigliano un ristorante molto buono.
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Chi è il terrorista ?
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La strada dell'indomani comincia con l'attraversare la riserva indiana Flatlake. Tra i pochi segni visibili, una T-Shirt in vendita che merita la foto. [Letteralmente la scritta vuol dire Sicurezza della patria: combattiamo il terrorismo dal 1492, ma Homeland Security è anche il nome dell'organizzazione di sicurezza interna voluta da Bush dopo l'11 settembre]. Un po' me ne vergogno, ma so pochissimo della storia dei pellerossa, ed in occasione di questo viaggio, per cercare di rimediare, ho acquistato (presso la stupenda libreria Elliot Bay di Seattle) un volume sulla storia dei Cherokee. Non avevo la più pallida idea che quel popolo avesse adottato una costituzione scritta, messo a punto un alfabeto, e realizzato (tra l'altro) un quotidiano in parte in inglese ed in parte nella propria lingua. La Corte Suprema presieduta dal giudice Marshall si schierò a difesa dei diritti della nazione Cherokee, e fu in quella occasione, ho scoperto, che il Presidente Andrew Jackson (quel tizio un po' spettinato che sta sulla banconota da venti dollari) pronunziò il suo celebre commento: John Marshall has made his decision; let him enforce it now if he can (John Marshall ha pronunziato la sua sentenza: adesso la esegua, se gli riesce). Ne seguì un drammatico trasferimento in massa verso l'Ovest, che si tramutò in una vera e propria strage, nota oggi come Trail of Tears (la pista delle lacrime): perì di stenti, a seconda delle stime, da un quarto alla metà di tutti i Cherokee. A differenza di altre etnie pellerossa, cultura lingua ed identità Cherokee si sono però tramandate sino ai giorni nostri.

Vicino a Polson, sempre nella riserva Flatlake, si trova il curioso Miracle of America Musuem, che raccoglie oggetti della vita quotidiana americana della prima metà del secolo ventesimo. La presentazione che ne fa la guida Lonely Planet è francamente esagerata, ma la visita ha qualche motivo d'interesse. Tra una Harley-Davidson d'anteguerra ed una radio anni trenta, si trova anche incorniciato l'infame proclama del 1942 (Executive Order 9066) che disponeva l'internamento degli americani d'origine giapponese. Poco più in là, senza un cenno di commento, qualche esemplare delle stelle gialle che nella stessa epoca gli ebrei europei furono costretti ad indossare, in più di un paese, come segno di riconoscimento. Mi è parsa un'occasione non faziosa di riflessione: gli errori vanno condannati ma non debbono far dimenticare le titaniche proporzioni dell'impegno americano per la libertà nel secolo ventesimo.
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Un pezzetto di Svizzera
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Poco a nord imbocchiamo la Going-to-the-Sun Road, che si inoltra nell'International Glacier Park, il cui territorio si estende tra USA e Canada. Il percorso è carino, ma quella che si trova nei dépliants (una delle più spettacolari strade di montagna al mondo) è una sciocca esagerazione del tipo che si perdona solo agli americani, i quali a tratti non sembrano neppure sfiorati dal dubbio che cose grandi e belle possano esistere anche al di fuori dei confini dell'Unione. La Going-to-the-Sun non può neppure lontanamente aspirare ad un posticino nella mia personalissima Top10: dalla Turchia all'Islanda al Montenegro al Marocco, ho guidato strade incomparabilmente più belle, e mi dicono che non siano nulla rispetto ad alcuni percorsi andini. Lascio stare le Alpi solo per non infierire.
l'autobus rosso degli anni Trenta.
Il parco è lambito da una delle ferrovie transcontinentali, la Chicago/Seattle della Great Northern Railway; il parco stesso (od almeno il suo sfruttamento turistico) fu sostanzialmente una creazione della compagnia ferroviaria, che adottò come emblema la rara capra bianca delle Montagne Rocciose, che nel parco si avvista tuttora. Ed anche noi l'abbiamo avvistata, a dire il vero, ma abbiamo scoperto solo più tardi che si trattava di un incontro decisamente fortunato. Lì per lì ci siamo anzi chiesti perché mai un drappello di turisti americani fosse in delirio dinanzi ad una semplice capra. Ooooops. I panorami del Glacier sono nel complesso molto belli, gli avvistamenti di fauna (orsi compresi) assai ricchi, ma soprattutto non c'è la folla che contraddistingue Yellowstone.
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Negli anni Trenta la White, all'epoca uno dei maggiori costruttori di veicoli industriali d'America, realizzò appositamente per i Parchi nazionali americani una flotta di cinquecento autobus rossi panoramici col tetto arrotolabile in tela, che ricordano molto da vicino i coetanei Saurer Alpenwagen svizzeri, incontrastati re delle strade di montagna. La Ford, al cui gruppo appartiene oggi la Volvo che negli anni Ottanta rilevò a sua volta la White, ha recentemente curato il restauro dei 33 veicoli appartenenti al Glacier Park, gli ultimi esistenti: hanno ricevuto nuovi motori capaci di funzionare anche a GPL e sono stati dotati persino di ABS. Lucenti nel loro rosso originario, sono un'autentica meraviglia.



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Mia moglie Monica con il cavallo Jack. Siamo vicini al confine tra il Montana e l'Alberta canadese



Il fondale perfetto, se si vuole completare l'atmosfera da cartolina d'epoca, è il curioso Many Glacier Hotel, che ad uso dei ricchi turisti d'anteguerra venne fatto costruire dalla Great Northern Railway in stile svizzero; la bella posizione sulle rive del lago Swiftcurrent rende la citazione non troppo velleitaria. Il ristorante è addirittura decorato con le bandiere di tutti i cantoni della Confederazione; cenare in Montana sotto lo stendardo del cantone di Uri può apparire un po' ridicolo, anche se a ben vedere una comune matrice (diciamo così) bovina è senz'altro identificabile. Gita d'obbligo all'Iceberg Lake: le pubblicità d'epoca lasciavano intendere che nelle sue gelide acque i gitanti avrebbero potuto pescare trote con la pelliccia. Pare che quell'escursione, circa quattro ore a piedi tra andata e ritorno, sia una delle migliori per gli avvistamenti di orsi, anche se a noi non è capitato (non lì, intendo).

Ci siamo concessi anche una passeggiata a cavallo. I dettagli ricordano che siamo pur sempre nell'America del ventunesimo secolo: il ranch ha il numero verde (uno dei famosi 800) e si prenota solo con carta di credito. Però i laghi e la prateria visti da cavallo sono quelli della leggenda, e la monta western, tanto vituperata dai puristi nostrani, è quel che ci vuole per l'occasione. I cavalli, poveretti, sono così rassegnati che, pur non montando da decenni, mi potevo permettere di scattare fotografie anche al trotto. 
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Nel regno del cerbiatto
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Il confine tra USA e Canada corre qui, come in quasi tutto l'Ovest, perfettamente rettilineo lungo il quarantanovesimo parallelo; è tracciato sul terreno con una striscia di una dozzina di metri di larghezza tenuta sgombra da vegetazione. Per i nostri gusti è un segno sin troppo vistoso, e suona anzi un po' anacronistico che americani e canadesi vantino l'assenza di più ingombranti barriere fisiche come uno speciale segno d'amicizia ed armonia. Siamo entrati in Canada attraverso una strada secondaria servita dal minuscolo posto di confine di Chief Mountain; è pochissimo frequentato, ma gli si attribuisce egualmente un piccolo record, quello di valico di frontiera a quota più elevata di tutto il Nordamerica. Il sito delle Dogane USA riferisce con grande enfasi che nel 2002 una tempesta di neve impose l'evacuazione di Chief Mountain, ed una piccola carovana di 4x4 impiegò circa 4 ore, in luogo dell'ora abituale, per portare in salvo a fondovalle lo staff. A conti fatti, Masone al confronto sembra un'avventurosa base antartica: nell'inverno 2005/2006 centinaia di persone hanno impiegato un'intera notte sull'A26 per riguadagnare Genova, ad appena una quindicina di chilometri. Poche miglia all'interno del territorio canadese si trova Waterton, cui abbiamo dedicato alcuni giorni per una parentesi davvero riposante. La località si affaccia su un lago ed è dominata da uno spettacolare albergo di lusso in stile britannico, il Prince of Wales: nel pomeriggio, chi dispone di una quarantina di dollari a testa in eccedenza può concedersi il classico High Tea, con torte pasticcini e quant'altro. Per le camere non abbiamo osato informarci; ci siamo accontentati del piccolo Historic Kilmorey Lodge. Accontentati si fa per dire, perché la camera era molto piacevole ed il ristorante eccellente, ben fornito anche di buoni vini canadesi.

Del Canada conoscevo solo il celeberrimo Ice Wine, prodotto con grappoli lasciati sulla pianta sino a Natale, quando sono ormai naturalmente congelati (non dimentichiamo che siamo in Canada...). Vengono raccolti di notte perché non si scaldino durante l'operazione, e quindi immediatamente pressati: l'acqua resta congelata dentro il chicco, e ad uscire è solo un nettare ricchissimo di zuccheri da cui si ricava uno straordinario vino dolce. Abbiamo imparato invece che si producono, soprattutto in British Columbia, anche vini secchi di qualità più che apprezzabile.

Il paesino di Waterton è così tranquillo da essere stato eletto a residenza da un gruppo di cervi, che brucano nelle aiuole e nei giardini e girano indisturbati per le strade. Talmente indisturbati che non si preoccupano neppure di spostarsi se u
n umano si para loro davanti: per aprire la porticina dell'alberghetto abbiamo dovuto garbatamente (ma letteralmente) spingere via un quadrupede che si era piazzato proprio in corrispondenza dell'ingresso e non ne voleva sapere di muoversi. Divertente nuotare nel lago con un cerbiatto che ti scruta incuriosito dalla riva, e non si sposta di un millimetro neppure se esci dall'acqua proprio sotto il suo naso. Non sembrava neppure troppo seccato, sebbene avesse il sacrosanto diritto di chiedersi perché mai una bestia bianchiccia galleggiasse nella sua acqua da bere.
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 Te piensi a vaju a Mironga?
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Da Waterton abbiamo puntato dritti verso il Pacifico, quasi mille chilometri che abbiamo percorso in due giornate; la strada si snoda quasi integralmente attraverso sterminate e magnifiche foreste di conifere. Abbiamo fatto tappa a Trail, una località mineraria che ancora reca visibilissime, tra una Colombo House e una Sagra del Vin Bianco, le tracce della comunità italiana che qui si insediò tra il diciannovesimo ed il ventesimo secolo, svolgendo le mansioni più umili nella costruzione della ferrovia transcontinentale canadese e nelle miniere. Non c'è gran memoria, nel nostro paese, per la storia di milioni di emigrati che all'estero si trovarono spesso a svolgere i lavori che nessun altro accettava; per una Marcinelle ben impressa nell'immaginario collettivo, innumerevoli altri luoghi di fatica (e spesso di morte) punteggiano le carte geografiche. Proprio negli USA, a Monongah, West Virginia, ebbe luogo il 6 dicembre 1907 una tragedia mineraria che tolse la vita ad un numero di italiani che non è mai stato possibile stabilire con sicurezza, verosimilmente tra i duecento e quattrocento: circa il doppio che a Marcinelle. Molti erano di San Giovanni in Fiore, in Calabria; per rassicurare l'interlocutore prima di una partenza, per significare che si tornerà presto, ancora pochi anni fa nel dialetto locale si usava dire te piensi a vaju a Mironga?
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Il miglior posto dove vivere?
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Non sarò così presuntuoso da esprimere un'opinione su Vancouver e Seattle, le città con le quali abbiamo concluso il nostro itinerario. Vancouver gode fama di essere una delle città con la migliore qualità della vita al mondo, ed in effetti la stupenda posizione sulla baia, il clima favorevole, i vasti parchi, le montagne vicinissime creano un insieme irresistibile. Una certa attenzione all'ambiente è testimoniata anche dalla rete di filobus e dai taxi Prius, il celebre ibrido prodotto dalla Toyota.

La città ospita una poderosa comunità cinese, così ben insediata da avere persino una sua propria scuola di volo. Ed ottimi ristoranti, naturalmente: abbiamo cenato meravigliosamente bene in un locale cinese del centro, frequentato da avventori quasi tutti cinesi, il che in genere è già di per sé una garanzia. Non altrettanto bene ci è andata la sera successiva, al Liliget, con una cena tipica dei nativi d'America: dalle uova di pesce (pressate e seccate) dell'antipasto, sino al dessert, una sorta di mousse ricavata da una bacca locale, non c'è stato alcunché di cui provare nostalgia; più che apprezzabile invece il vino prodotto da quella che ci è stata presentata come la prima casa vinicola in cui proprietà e staff sono al 100% pellerossa, dell'etnia Okanagan.


Si racconta che Robson Street, la principale via di passeggio e shopping, abbia fama leggendaria in tutto l'Estremo Oriente e che gli ormai numerosissimi turisti cinesi non vedano l'ora, appena sbarcati a Vancouver, di precipitarsi proprio lì. Sarà, ma non ci ho trovato proprio nulla di particolare, salvo il fatto che, all'angolo con la Thurlow, ci sono ben due Starbucks proprio l'uno di fronte all'altro [nella foto]. L'invasione del continente americano da parte di questa catena di caffè, cappuccini ed annessi sembra davvero ultimata: non c'è più modo di alzare gli occhi, in una città canadese o statunitense, senza scorgere la sua insegna verde. La moda del cappuccino ha portato con sé alcune curiose novità lessicali. Il barista esperto nella preparazione del cappuccino ormai in America si chiama, ebbene, barista; d'altra parte noi chiamiamo barman quello che eccelle nei cocktails, dunque la simmetria è perfetta. La terminologia italiana la fa da padrone: l'Espresso Macchiato si chiama così anche a Kansas City, Starbucks utilizza la grafia italiana persino per il Caffè Americano, ma attenzione: l'onnipresente latte è l'abbreviazione di caffelatte. Suppongo rimangano malissimo i turisti americani che ordinano un latte in Italia, tanto è vero che l'enciclopedia online Wikipedia (consultata il 7.1.06) lancia l'allarme: the barista will serve you plain milk! (il barista vi servirà semplice latte!).
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 Piccole storie di frontiera
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Pausa di riposo dinanzi ad un notiziario della TV canadese. La sera stessa si terrà, in un parco della periferia di Vancouver, un concerto dell'enfant du pays Michael Bublé. Alcune delle notizie successive fanno pensare che il gigante a stelle e strisce, visto da nord, sia più ingombrante che visto da est. Un poliziotto di Vancouver racconta di essere stato fermato da una pattuglia di Ranger del Texas, mentre era in ferie. Li per lì non capisco di che si lamenti: può capitare, se uno va a fare le vacanze in Texas. Ma il problema era appunto questo: il nostro poliziotto trascorreva le sue ferie in patria. I Rangers si trovavano in Canada per un'operazione congiunta antidroga, ed avevano cominciato a fermare la gente per strada per controlli senza neppure darne avviso ai colleghi canadesi. A Seattle (USA) il procuratore ha chiesto al locale Tribunale di disporre la confisca di un immobile in Canada. Un simpatico giudice in pensione dalla chioma bianchissima alleggerisce l'atmosfera: che confischino pure quello che meglio preferiscono, tanto qui i loro provvedimenti non hanno alcun valore. Alcuni politici locali sembravano prenderla in maniera meno rilassata, e se un canadese vuole esprimere il suo sentimento non ha che da acquistare l'adesivo più appropriato.


L'autostrada che da Vancouver porta a Seattle è stata per me una cocente delusione. Immaginavo che tra due città così vicine e così economicamente avanzate, tra i punti di riferimento del XXI secolo, si stendesse un'area urbanizzata capace di trarre beneficio dall'interazione con entrambe le metropoli. Mi sbagliavo di brutto. Si parte da Vancouver su una strada ad otto corsie, che diventano sei, poi quattro, ed infine il traffico sparisce quasi del tutto, soprattutto quello di mezzi pesanti. Nell'ultimo miglio prima della frontiera c'è un'atmosfera desolata da cortina di ferro; ci si ritrova per un'ora a passo d'uomo in un'unica fila. Tre (dicesi TRE) soli varchi di frontiera aperti sul lato statunitense. Non confrontiamoli con l'unico varco che spesso si trova aperto anche in importantissimi valichi d'ingresso nell'Unione Europea, come ad esempio Como/Brogeda: lì Carabinieri e poliziotti sono occupati per lo più a far segno di non fermarsi. I controlli all'ingresso negli USA sono tutta un'altra cosa, ma la Jeep con targa del Colorado è comunque un'eccellente carta da visita: Welcome Back in Fortress America.
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A casa di Mr. Gates e Mr. Allen
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Appena arrivati a Seattle diciamo addio (senza alcun rimpianto da parte mia!) alla nostra vettura. Alamo dispone di un comodissimo punto di servizio in pieno centro, negli scantinati dell'Hilton, e quindi non dobbiamo neppure riportarla all'aeroporto. Le due grandi città del nord Pacifico si assomigliano indubbiamente molto, immerse come sono nelle loro baie popolate di idrovolanti, con lo spettacolare fondale di montagne e vulcani incappucciati di neve anche in piena estate. Ma se Vancouver ha dalla sua un fascino vagamente esotico ed alternativo, Seattle mette sul piatto, senza troppe perifrasi, la sua potenza di capitale industriale del XXI secolo, con nomi come Boeing e Microsoft. La presenza dei due colossi si percepisce eccome, in città, a cominciare dal fantastico Experience Music Project, il museo del rock voluto da Paul Allen, il cofondatore di Microsoft. Rispetto a Gates, sembra se non altro avere le idee assai più chiare su come godersi la sterminata ricchezza che li accomuna; alcuni attribuiscono la svolta al morbo di Hodgkin di cui Allen soffrì a metà degli anni Ottanta, sconfitto il quale la filosofia del godiamoci gli anni che restano sembra aver prevalso. Intendiamoci: numerosissime sono le opere di beneficenza riconducibili a Paul Allen, soprattutto, come ben immaginabile, nel settore della ricerca medica. Il personaggio resta comunque più visibile per il suo strepitoso stile di vita, ben epitomizzato dal suo smisurato panfilo, di casa nelle località più belle del mondo. Il suo Boeing 757 privato (matricola N757AF) è una vecchia conoscenza dei frequentatori dell'aeroporto di Genova: resta spesso parcheggiato qui da noi, quando il padrone è a spasso per il Mediterraneo.


Paul Allen e Bill Gates immortalati all'ingresso della Metropolitan Steak House


L'Experience Music Project (EMP) è soprattutto un colossale monumento alla musica rock, di cui Allen è un grandissimo appassionato. E' ospitato in uno stupefacente edificio progettato da Frank Gehry (autore, tra l'altro, del Guggenheim di Bilbao e della Walt Disney Concert Hall di Los Angeles) ed è corredato di tutte le diavolerie tecnologiche immaginabili. Le sezioni multimediali sono fantastiche, soprattutto il padiglione dedicato a Bob Dylan, così come le collezioni di memorabilia, che vantano tra l'altro i frammenti della Fender Stratocaster distrutta da Jimi Hendrix a Monterey nel 1967. Un po' triste per chi scrive vedere già “museificati” i primi giradischi Technics a trazione diretta: ai tempi del mio liceo erano il massimo cui si potesse aspirare, anche se i DJ, mi pare di ricordare, preferivano i Lenco L75.

Che ci fanno però in questo Olimpo un paio di pantaloni in pelle indossati da Christina Aguilera in non so quale concerto? A giudicare da quanto sono affusolati il contenuto doveva essere strepitoso, d'accordo, ma accostarla a Jimi Hendrix mi pare un po' troppo. Sorge il sospetto che quel furbacchione di Paul Allen nutra per la bella Christina un interesse non propriamente musicale, ma Internet non conferma: gli sono attribuite innumerevoli ragazze (a cominciare dalla tennista Monica Seles) ma della Aguilera non c'è traccia.

Dedichiamo l'ultima sera al Metropolitan, che gode fama di essere la migliore steak house di tutto il NordOvest: sublime. Tra le specialità il filetto con l'osso: anziché lasciare l'osso alla bistecca, lo si aggrega al filetto. Alto ben più di quattro dita, memorabile. Mentre aspettiamo che sia pronto il nostro tavolo, scorriamo le foto dei clienti più celebri, appese nell'ingresso. Da noi in genere si tratta di una sfilata di calciatori ed improbabili personaggi televisivi: qui, oltre alla ovvia accoppiata Allen-Gates, sono allineati i capintesta di Boeing, Amazon, Nintendo, Sun, Intel, Oracle, Apple. Come direbbe un caro mio amico, se Seattle è Seattle e Genova è Genova, ci sarà pure un motivo. Eccome se c'è.


ugo bechini, ugo@bechini.net

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